Di fogli bianchi e della mania di non buttare via i ricordi

Sempre avuto problemi coi fogli bianchi.

Troppo belli da immolare se non hai davvero qualcosa di interessante da dire.
Non tanto poi quelli bianchi su uno schermo, quanto i fogli veri, quelli di carta, che tagliano e profumano come mai nessun dispositivo si preoccuperà di fare.

Ho un cassetto personale, solo mio, dove tengo quaderni, agende e block notes belli da accecare. A volte li prendo e li guardo, li apro, li annuso.
I loro unici momenti di gloria.

Penso a come sarebbe bello scriverci se solo fossi certa di avere una storia straordinaria, oltre ovviamente a riuscire a scrivere diritto e senza sbavature, con la mia migliore calligrafia.
Sono sempre lì, come belle spose immacolate che aspettano un amore da consumare.
Ne accumulerei ancora, e ancora e ancora.

Non ho mai una storia sufficientemente interessante e perfetta.
In realtà non ho mai una storia e basta.
Perché sono una donna senza fantasia, che non sa dire neanche le bugie figuriamoci inventarsi un racconto avvincente che segua un filo realistico e interessante.

Ho un vagone carico di ricordi , invece. Zero storie, solo ricordi e sensazioni.
Fatico sempre a buttarli.
Parole, espressioni, sguardi, frasi, citazioni.
Ricordo quasi sempre come ero vestita in una situazione importante.
Ricordo gli odori. Ricordo il passato delle persone, perché le ascolto quando me lo raccontano.
Ricordo le facce, le situazioni, la magia di certi momenti.

E poi dimentico tutto ciò che è pratico.
La lista della spesa, quando devo fare una chiamata importante, dove ho messo le chiavi, il cellulare, il giorno in cui il medico non c’è, che oggi è giovedì, i compleanni delle persone nate nei mesi di Giugno e Luglio, il giorno della festa della mamma.
Dimentico di fare la borsa della palestra, di mandare quella mail, di rispondere a quel messaggio, di comprare quella cosa, come si chiama la fermata della metro. A che ora è il treno, stampare il biglietto del treno, dove ho messo il biglietto del treno.
Dimentico la data esatta, il codice di avviamento postale, il compleanno del mio migliore amico.

Ricordo però che da bambina, quando andavo al mare con gli zii, se mi perdevo dovevo dire che la zona era la numero Quarantacinque, che erano gli anni di mio babbo.
Sono passati ventuno anni, ne avevo otto, un giorno giocavo con una palla nuova sulla spiaggia, di quelle che si gonfiano col fiato, leggere.
Volò via e mi sgridarono perché non si gioca a palla quando c’è garbino, che si sa che poi vola via, al largo.
Francesco, il cugino più bello che una bambina di dieci anni possa avere, inforcò i remi del moscone e riportò indietro la palla sana e salva.
Un’impresa eroica, perché anche se non sapevo cosa fosse il garbino, avevo capito che con le palle come la mia non ci andava per niente d’accordo.

Quattordici anni dopo, poco più in là, alla zona Quarantotto, si facevano le feste più belle che una ragazza di ventidue anni possa desiderare.
Musica perfetta, gente perfetta e un’atmosfera perfetta.
Si chiacchierava e si stava a piedi nudi nella sabbia. Si ballava, si rideva.
Ricordo Fabri che festeggiava i suoi ventiquattro anni troncando una storia andata troppo per le lunghe, e vomitava fuori dal mio finestrino mentre io raccontavo alla Marghi che mi ero innamorata, di Marco, che aveva una maglia gialla che gli stava da dio, che era abbronzato e sciocco. 

Ricordo tutti i soprannomi che davamo alle persone, per non farci capire quando parlavamo di loro.
Ricordo l’odore della macchina che avevo, l’odore della macchina che aveva lei, e la puzza di fumo che facevano i vestiti quando tornavamo a casa.

Ricordo quando i pomeriggi ci appartenevano, anche se allora non ne avevamo affatto consapevolezza.
Il non avere nulla da fare, annoiarsi, parlare, decidere, fare i nostri orari, esprimere i desideri, realizzare i desideri.
Ricordo non finire i compiti, uscire senza studiare, la priorità che aveva l’amicizia, gli squilli prima di dormire, gli sms, le ricariche da cinque euro.
La sveglia alle sei di mattina e prendere la corriera per andare a scuola, in Urbino, che era ancora buio pesto.

Urbino imbiancata, alla Fortezza. Arrampicarsi sulla cima di una statua e tuffarsi nella neve, immacolata, alta fino in vita.
E poi la primavera alle porte, il verde fuori dalla finestra, il tempo degli addii, le stelle, la festa fuori e le lacrime dentro, chiuse in camera. Elena che rideva, Maria che piangeva, Alenka che rideva e piangeva.
La puzza di quel sudicio e minuscolo frigorifero dove tutte stipavamo il nostro cibo da pochi soldi.
L’ultima volta che ho giocato a nascondino, avere lezione il venerdì mattina, e andarci solo perché c’era Linguistica.

La semiotica, le categorie, il linguaggio, ritrovare tutto nella vita vera, gli stessi schemi, nelle relazioni, nella forma del nostro pensiero, nella sua struttura.
La sensazione di scoperta e il sorriso inebetito, appesa al tram mentre tornavo a casa.

Ma la sensazione più bella sarà sempre quella, di una giornata allungata che anticipa la primavera, il cui profumo ti sorprende al posto della notte.




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