Malta. Primo giorno. Il lusso di avere tempo in abbondanza.
Ogni viaggio è senz’altro influenzato dall’esperienza degli anni precedenti, dalla raccolta di ricordi di luoghi già visti, già letti, già sognati in precedenza.
Anche a Malta si ritrovano i tratti di molte viste già vissute: le ripide salite con i panni stesi alle finestre, tipiche di Lisbona, i colori chiari e assolati della Sicilia, isola vicina, della quale i nobili maltesi richiedevano di ritrarre l’Etna, nei dipinti di famiglia, per dimostrare potere e larghe vedute.
Ma ci sono tratti somatici particolari che non lasciano equivocare, e contraddistinguono quest’isola rendendola unica, più che rara.
L’efficienza dei servizi, per esempio, come quelli del paese più moderno, mentre poi nelle vie più periferiche della capitale, i muri si sgretolano e gli angoli vengono atti a piccole discariche.
I suoni arabeggianti, nella lingua maltese, che raschiano vibrazioni tra il pauroso e il comico, e si mischiano a uno stretto dialetto del sud Italia, con idiomi francesi, spagnoli e inglesi.
Il lungomare di Sliema è un lungomare riminese, allo stesso modo poco illuminato, allo stesso modo pieno di locali tailor made per Il Turista – italiani e inglesi si spartiscono le attenzioni al cinquanta e cinquanta -.
Ma se si ha voglia di cercare si possono scoprire aspetti più discreti, meno scenografici, e senza dubbio più autentici, di questa piccola isola.
Arrivando a Valletta, per esempio, attraversando il cantiere firmato Renzo Piano che sta riqualificando Freedom Square, e spingendosi nella brulicante Republic Street, è sufficiente imboccare una via traversa per scendere verso zone meno battute, più silenziose, e fare colazione in un tipico bar maltese dove persone del posto sorseggiano il loro cappuccino e magari mangiano ravioli alle dieci di mattina.
Perdersi e camminare senza una meta precisa è la parte più bella del viaggio, della scoperta di una città, e con Valletta è facile perché lei non si nasconde.
I bovindi protesi in avanti, ad ogni finestra, di legno variopinto, tremano sotto il peso degli anni e del sole cocente.
Un sole cocente che si può solo intuire, ora, nel colore ocra delle case, di tutte le case e dei palazzi. Il sole cocente dei mesi più caldi.
Per pranzo ci spingiamo verso mare, dalla pare di Marsamxett Harbour, per trovare numerosi e pittoreschi ristorantini, tutti molto turistici.
Ci spingiamo più avanti, mai contenti e mai sicuri, cercando sempre il posto più incantevole.
Ci fermiamo in un bel locale dall’aria caraibica, tutt’altro che maltese style – quale sarà poi il maltese style, non lo capiremo mai – con le palme, i tavolini spartani, le tovagliette in carta.
La terrazza, di rimpetto a Fort Manoel, immersa in un sole caldo e piacevole.
La birra locale, la Cisk, leggera e a poco prezzo, scende che è un piacere, con quella sensazione di sollievo e freschezza che mi fa sentire in vacanza, sempre, quando sorseggio una birra gelata sotto un caldo sole estivo.
Un piatto maltese per me, con formaggi di ogni tipo, olive marinate e un gustoso paté al sapore delicato di aglio e spezie.
Un octopus stew per Marco, ovvero polipo stufato nel vino rosso, semplicemente delizioso.
Nel pomeriggio ci spostiamo verso l’interno, nell’antica capitale dell’isola, Mdina.
Una città ideale, senz’altro lontana dagli stereotipi rinascimentali, ma che lascia intuire un ordine quasi superiore.
Il silenzio. L’acciottolato pulito delle strade, il colore chiaro delle case e dei palazzi che si ripete anche nei balconi, rigorosamente fedeli alla tonalità del tutto.
Mdina ha un fascino così esotico che potrebbe essere scambiata per un set cinematografico, se non fosse per i gruppi di turisti che si ritrovano dietro un angolo passeggiando e curiosando qua e là.
Una torta e un irish coffe nel locale più conosciuto della cittadella, dalla cui terrazza si scorge, senza esagerare, quasi metà della piccola isola che è Malta.
Uno sguardo verso familiari campi verdi coltivati che si uniscono ad un profilo urbano che ricorda le città antiche del Marocco.
Profili esotici e fascinosi, dai quali spicca con ripetuta irregolarità, una cupola o un campanile.
Quando si ha tempo in abbondanza ci si può permettere anche di improvvisare, e di affidarsi all’intuito piuttosto che rimanere fedeli ad una classica guida.
Se fosse stato per il nostro libretto, saremmo rientrati senza dare troppa importanza a Rabat, ma nei minuti di attesa dell’autobus decidiamo di immergerci in un’altra splendida realtà.
Rabat è il normale proseguimento di Mdina, solo fuori dalle mura, solo meno protagonista.
Bella da morire, elegante da incantare, ma vera e brulicante come una piccola e vivace cittadella di noialtri.
Piccoli baretti gestiti da altrettanto piccoli omini anziani, con qualche sedia fuori e un vaso di fiori colorati. Mi ricordano alcune cittadine emiliane, dove il bar è ancora fulcro del quartiere e c’è sempre qualcuno con una storia da raccontare.
Anche qui i muri sono perfettamente lisci e chiari, con l’unica differenza che le macchine e le voci per la strada rendono Rabat meno turistica e più veritiera.
Qualche stendardo colorato fuori dalla chiesa fa pensare ad una festa religiosa, mentre cattolici ben vestiti escono dalla messa del sabato e si fermano a chiacchierare sul sagrato.
Una chiesa quasi dietro ad ogni angolo, un elegante portone che ti invoglia a fotografarlo, un grazioso ristorante o un invitante dehor che ti chiama per l’aperitivo.
Rabat ci ha stregati, ma l’ultimo autobus sta per partire e di corsa torniamo fuori delle mura dell’antica Melite.
Avere tempo in abbondanza ti concede il lusso di dire Torneremo presto. Perché questo luogo ha ancora qualcosa da dirci.