Il mio Vietnam: dalle stelle alle stalle e un incubo ad occhi aperti
E così stamattina ci svegliamo in questo posto meraviglioso, dalla finestra – lasciate appositamente le tende un po’ aperte – entrano i colori purpurei dell’alba, di un’alba che fino ad ora non avevamo mai incontrato. Un’alba con coordinate e latitudini differenti dalla nostra, dai colori più vivi ed intensi.
L’autobus che ci porterà a Nha Trang parte alle 13:30 da Mui Ne, e noi ne siamo ben distanti, dunque ieri sera abbiamo chiesto alla ragazza della reception di chiamare un taxi che fosse qui per mezzogiorno, in modo da arrivare in agenzia a Mui Ne verso le 12:45, avere il tempo di fare il biglietto con calma e magari mangiare qualcosa.
La colazione è sontuosa, ci sono tantissime diverse pietanze tipiche vietnamite. Così, come mio solito, mi ritrovo con tre piatti ricolmi di roba.
Quella che qui chiamano omlette è ben diversa dalla nostra, o comunque a quella che è la mia concenzione di omlette. Si butta un trito grossolano di verdure a soffriggere un po’ – tipo un soffrittino in olio di tutto tranne che d’oliva – e poi due uova, prima sbattute e poi raccolte al lato della padella.
Inutile dire che le omlette vietnamite sono di gran lunga più buone e gustose di quelle che cucino io almeno una volta a settimana in Italia.
Poi ravioli cotti al vapore, involtini in carta di riso, wurstel e pancetta – ok, questi no vietnamiti ma piuttosto internazionali -, una cosa bianca dalla consistenza tra il sofficie e il gommoso che neppure con tutta la fantasia del mondo riesco a capire che cosa sia, un po’ di insalata con condimenti tipici, tipo funghi essicati sottolio e cipolotti minuscoli in salsa agrodolce.
Sì lo so cosa starete pensando, che tornerò ingrassata di almeno cinque chili, e a dire il vero lo sto pensando anch’io, ma forse è meglio non pensarci.
Ci godiamo le ultime ora di questo paradiso rilassandoci un po’, leggendo nella veranda fuori dal nostro bungalow, su comodi sdrai di legno, tra il canto degli uccelli e quello dell’oceano.
Il taxi – guarda caso – è in ritardo e la preoccupazione di non aver preventivamente comprato un biglietto per un viaggio di cinque ore, nella giornata di sabato della prima settimana dell’anno, inizia a farsi sentire. Ne arriva uno ma la ragazza dell’hotel ci dice che non è il nostro. Sta di fatto che il tassista sta lì annoiato ad aspettare chissà chi, noi siamo lì preoccupati ad aspettare chissà quale tassì, dunque prendiamo le nostre valigie e montiamo su.
Il tragitto di ritorno è più veloce di quello d’andata: arriviamo a Mui Ne e ci facciamo lasciare di fronte ad una agenzia. Qui nelle città turistiche è pieno di agenzie dove si possono acquistare biglietti del treno, biglietti aerei, escursioni e biglietti per gli autobus “open tour” – che percorrono grandi distanze tra le città più conosciute e visitate.
Comunque, dicevo, ci facciamo lasciare davanti ad una agenzia e chiediamo dei biglietti. “Quando volete partire?”, “Now!“ rispondo, visto che sono le 12:50 e la maggiorparte delle corse parte all’una.
Giustamente mi ridono in faccia, almeno nei primi due tentativi, e dopo una telefonata di controllo, mi servono un bel “No sorry, full. The bus is full“.
Molto bene, proviamo l’ultimo tentativo, inforco la zaino con le lacrime agli occhi – non per la paura di non trovare posto ma perchè, ieri non l’ho scritto, mi sono praticamente ustionata ccollo e spalle durante la passeggiata alla sorgente delle fate. Andiamo all’ultima agenzia che conosciamo, proprio di fianco al resort dove abbiamo alloggiato due giorni fa, e chiedo alla ragazza se ci sono ancora due posti per Nha Trang. E lei mi dice sì, che sono gli ultimi due.
Devo dire che un culo così – passatemi il termine – non si era mai visto.
Ma visto quello che succederà in serata, più che di fortuna parleri di un angelo custode che sta appollaiato sui nostri zaini dal primo giorno in cui siamo partiti.
L’autobus parte alle 14 e noi non ordiniamo niente da mangiare perchè abbiamo paura di non fare in tempo. Allora alla stessa ragazza che ci ha venduto i biglietti chiedo un po’ di frutta e mi faccio sbucciare un mango. 40.000 Dong – ovvero un euro e mezzo – un furto. Per gli standard vietnamiti è un furto per turisti, studiato – neanche tanto – apposta per me e per la mia faccia da tonta. Provo a dirle con un mezzo sorriso “Fourteen, no fourty“, ma figuriamoci. Una volta ho pagato prezzo pieno per un paio di ballerine, ultimo numero rimasto e mi stavano anche strette. Lasciamo perdere.
Il mango è squisito e dopo quasi una mezz’ora arriva l’autobus. Siamo davvero soddisfatti di essere riusciti a fare in tempo, sto ancora pensando che siamo stati più che fortunati quando, salendo sul pullman, percepisco una strana sensazione. Un presentimento. Inizialmente credo che sia il mio sesto senso a parlare, poi sarà palese invece, che era semplicemente il mio olfatto. Prima ancora che mi renda conto di dove sto salendo, l’autista mi dice di togliere i sandali, nell’autobus si cammina scalzi. Ora, io mi ero già preparata psicologicamente al dover entrare senza scarpe in un tempio, dove fedeli e monaci buddisti entrano e pregano scalzi in segno di rispetto. Ma qui, in questo lurido puzzolentissimo autobus, mio dio, no. Non mi sentivo davvero pronta.
Non so se avete mai visto uno sleeping bus – o almeno così lo chiamano le agenzie, per distinguerli dai sitting bus -, si tratta di autobus che non hanno i sedili normali ma una sorta di cuccette allungate – e decisamente troppo basse – in cui si può stare solo sdraiati. Ci sono tre file, una a destra, una a sinistra ed una centrale.
Avanziamo cercando posto e più ci inoltriamo verso gli utimi sedili più la puzza di sudore aumenta, fino a trovare posto proprio di fianco a colui che ne è la sorgente. Un signore anglofono che sta sdraiato lì, con la sua canotta smanicata e le mani incorciate dietro la testa.
Stampato in faccia un sorriso divertito, probabilmente perchè ha appena visto la mia, di faccia, che invece sono sul punto di vomitare.
Inutile descrivere la pulizia di questo mezzo: tutto cigola, il finestrino è arrugginito, sotto di me c’è una coperta di pile, per coloro che fanno il viaggio di notte e magari vogliono coprirsi, sul poggiatesta un cuscinetto, rivestito della stoffa più brutta che io abbia mai visto.
In realtà quella stoffa non era poi così brutta, ma il contesto mi aveva ormai annebbiato la mente, così ho iniziato a ridere come una pazza isterica, cercando di non fare troppo rumore per non disturbare gli altri. Pensavo a quando ci addormentiamo a bocca aperta sul cuscino e che proprio per questo motivo, in un hotel, in base alla pulizia o meno della stanza, il cuscino è la cosa a cui siamo più attenti.
Volevo dire qualcosa, fare una battuta tipo “Mettiamoci a dormire a pancia sotto, magari con la bocca aperta!” ma da quanto era isterica e irrefrenabile la mia risata non riuscivo a parlare, tra i singulti e le lacrime. Questo mio comportamento ha incuriosito l’anglofono – e spaventato Marco – dunque ho cercato di calmarmi e di darmi un contegno.
Il mio amato compagno di viaggio si è messo subito a dormire, per paura di star male e vomitare. Idea molto saggia. Lo avrei imitato volentieri se non fosse stato che non avevo un minimo di sonno oltre al fatto che il mio sedile mi costringesse a tenere le gambe rannicchiate in una posizione tutt’altro che comoda.
Mi sono messa quindi a leggere un po’ dividendo il mio tempo tra la lettura della Lonely Planet e l’osservare il paesaggio fuori dal finestrino. Prima spiagge bellissime, bianche, con un mare costantemente inquieto, poi alcuni paesini di baracche e negozi sulla strada. Stavamo entrando nell’entroterra, per questo le buganville lasciavano spazio ai vitigni arrotolati alle verande delle case e i fichi d’India prendevano il posto dei dragon fruits.
Dopo qualche ora riniziavamo a scendere, e le risaie mi colpivano ancora per il loro verde splendente, lucente, un verde mai visto, forse paragonabile solo a quello delle Araan Islan, che dopo un acquazzone passeggero rimane bagnato di pioggia e riflette ed amplifica la luce del sole.
All’ora del tramonto ero felice di essere lì, di fare quel viaggio in quello sporco sedile di quel lurido autobus. Ho dormito usando la Lonlely Planet avvolta nella maglietta come cuscino e poi, alle 18:30 ma già buio pesto, siamo arrivati a Nha Trang.
Quello che ho passato a questo punto del viaggio è davvero difficile a descrivere. Credo sia stato uno dei momenti più brutti, o almeno più terrificanti della mia vita.
Saliamo sul taxi chiedendo quanto tempo ci vuole per andare a Doc Let, una spiaggia sperduta piuttosto fuori Nha Trang. Lui batte con l’indice sull’orologio e dice “One”. Candidamente penso che intenda un quarto d’ora, e dunque ci mettiamo comodi guardando fuori dal finestrino.
E’ tutto contento di avere due passeggeri occidentali, si ferma nel mezzo della strada – e se dico nel mezzo della strada non intendo nel mezzo della corsia, ma proprio nel mezzo della strada – e si mette a cercare qualcosa nel cruscotto. Noi pensiamo che stia cercando un pezzo di carta per scriverci il tempo esatto necessario e invece toglie da una bustina un cd masterizzato che inizia con “Oh Diane” e prosegue con il più noto repertorio di musica rocn’n’roll.
Nha Trang è la Rimini vietnamita, piena di luci, ristoranti, localini e night per turisti di ogni tipo. Per questo abbiamo deciso di starle alla larga. Usciamo dal centro turistico e commerciale costeggiando il mare, la strada è lunga e diritta, senza buche.
Dopo più di mezz’ora siamo ancora in viaggio, siamo un po’ stufi di stare qui sopra, io controllo la piccola cartina che è sulla guida per avere un’idea di dove ci troviamo e presumo di essere a metà strada. Quel “One” era forse un’ora?
A un certo punto usciamo dalla strada principale, svoltiamo a destra su un ponte senza paracarri – santo cielo, perchè non mettere un paracarri? – che ha il mare a destra e sinistra. Lo percepiamo dall’oscurità che abbiamo intorno perchè su questa lunga strada che scavalca il mare non c’è l’ombra di un lampione, non una lanterna cinese, non un lumino ad olio, solo il buio più totale.
La spiaggia di Doc Let è sulla punta di una lingua di terra, dunque con questo ponte siamo entrati su una penisoletta che si sporge sul Mare Cinese. Proseguiamo ancora, la strada è buia, i motorini sono meno frequenti che in città ma molti sono senza luci ed io inizio ad immaginare che disgrazia sarebbe se investissimo qualcuno, in questo posto dimenticato da Dio e dall’illuminazione pubblica comunista.
L’asfalto diventa più irregolare adesso, non lo vediamo ma lo sentiamo dalle buche che fanno saltare la macchina. Il pilota non accenna a rallentare finchè non prende una buca tanto profonda da rischiare di spaccare tutto. Facciamo una botta così grossa che penso di aver rotto la coppa dell’olio, o quanto meno di aver storto qualcosa. Ci è andata bene.
Lui prosegue, ora più cauto, dando l’impressione di non avere la più pallida idea di dove stia andando.
Dopo diversi chilometri – il tassametro ne segna già cinquanta – usciamo dalla strada principale e ci immettiamo su una secondaria, disconnessa e ancora più buia della prima. Sorpassiamo un resort che si chiama Wild Beach Resort e poi il nulla.
Costeggiamo una sorta di cava, sulla nostra destra una parete di roccia scavata dalle ruspe parcheggiate a riposo sul bordo della strada, sulla nostra sinistra il vuoto.
Superiamo una baracca male illuminata dove probabilmente stanno dormendo le persone che di giorno lavorano con questi scavatori. Mi torna in mente Marco che l’altro giorno ha detto “Se ci pensi un tassista potrebbe prenderci, portarci in un posto imboscato e rubarci tutto quello che abbiamo. Se chiama degli amici e si da appuntamento con loro noi tanto non lo capiamo. Ci prendono in due tre e ci ripuliscono”. Lo aveva detto mentre andavamo a Phan Thiet sotto il sole cocente di mezzogiorno.
E ora invece eravamo qui, su una strada sterrata di montagna, buio pesto, l’ultimo centro abitato cinque chilometri indietro.
Marco cerca di rassicurarmi dicendo che probabilmente il nostro autista si è perso, ma poi gli chiede se è tutto a posto.
Lui non rispende, non capisce, non parla. Sembra più spaventato di noi, ma questo non basta a rassicurarmi, anzi.
Oltrepassiamo un’altra baracca e continuiamo a salire. La strada adesso è completamente disfatta, probabilmente in costruzione. Schiviamo una buca profonda mezzo metro e a quel punto inzio a pregare perchè non hop la più pallida idea di cosa ci potrebbe accadere. Marco si fa più insistente e gli chiede se si è perso. Facciamo inversione e torniamo indietro.
Superiamo la baracca e io già mi sento sollevata pensando che probabilmente, anche se siamo molto spaventati, nessuno ci deruberà. Ma alla seconda che incontriamo tornando indietro, l’autista inizia a lampeggiare insistentemente con gli abbaglianti. Si ferma e scende.
Una televisione accesa passa un film squallido, rigato dalle interferenze di un’antenna probabilmente improvvisata.
A quel punto – banale da dire – mi vengono in mente tutti i film possibili e immaginabili dove, in un contesto simile, succedono le peggiori cose mai viste.
Mi sale il panico, metto la mano sulla sicura davanti – sono seduta dietro, lato guidatore – e dico a Marco che se vedo comparire qualcuno io chiudo la sicura, lui si mette al volante e scappiamo. Prendo il cellulare in mano con l’intento di chiamare il 122 – proprio in autobus avevo letto i numeri di sicurezza, rassicurata nel leggere che in caso di necessità sarebbe stato possibile parlare con qualcuno in inglese. La voce mi trema, le mani mi tremano e anche Marco non mi sembra più molto tranquillo. Sta iniziando a dividere i soldi tra il portafogli e qualche tasca nascosta – lo aveva fatto anche l’altro giorno, quando aveva già pensato alla possibilità dell’essere derubati – per non rimanere senza uno spiccio nel caso in cui le cose si mettano davvero male.
Mi chiedo a voce alta dove accidenti sia andato il tassista, mi volto e lo vedo che sta urinando a bordo della strada. Sono furiosa e terrorizzata – lo so che l’ho già scritto ma il terrore è un concetto che in questa parte del racconto deve farla da padrone, perchè l’ha fatta da padrone in questa parte del mio viaggio – così lo chiamo bussandogli al finestrino. Gli dico di venire e lui apre il mio sportello, spaventandomi ancora di più. Gli mostro il numero di telefono che abbiamo sul foglio della prenotazione e gli dico di chiamare il benedetto Jungle Beach per chiedergli dove cavolo si trova. Sto sudando e tremando mentre lui si accovaccia a terra e cerca di leggere il numero di telefono facendosi luce con il suo stesso cellulare e guardandosi attorno spaventato. “Cristo ma perchè non sale in macchina?”, parlo quasi urlando, in preda all’agitazione, e mi trema la voce. Intanto il cd rock’n’roll è quasi a metà del secondo giro.
Il numero è sbagliato e lui, vedendomi in quello stato, si spaventa ancora di più, continua a guardarsi intorno. “Go! Go!” gli urlo, poi Marco gli dice di tornare indietro al resort che abbiamo incontrato prima.
Non capisce niente di niente ma a gesti ci facciamo intendere quindi riparte.
Quando arriviamo al Wild Resort, mi sento salva e ringrazio il cielo. Abbiamo intenzione di scendere qui ma lui chiede indicazioni al guardiano. Gli dicono che è qui vicino e infatti, dopo cento metri, nel buio più totale a lato della strada, vediamo un cancelletto in legno e l’insegna del benedetto Jungle Beach.
Questo incompetente non aveva la più pallida idea di dove fosse questo posto. Scendo dal taxi e le gambe mi tremano, non riesco a stare in piedi e continuo ad imprecare contro di lui dicendo a Marco di non azzardarsi a dargli tutti i soldi visto che ha sbagliato strada e che siamo stati fermi un quarto d’ora rischiando di essere derubati e forse uccisi. Ma lui ci sconta solo pochi spiccioli. Maledetto.
Sono senza parole, sono stravolta, scossa, terrorizzata e sto per mettermi a piangere.
Il Jungle Beach è…una giungla. Mai nome più azzeccato per una struttura ricettiva.
Ci accoglie un signore di mezza età che si accorge subito del terrore dei miei occhi, quindi, non so se è un’abitudine o proprio per questo motivo, ci fa appoggiare gli zaini e ci offre una limonata fresca.
Ci chiede se siamo affamati e ci torna in mente che non abbiamo pranzato. Eravamo così spaventati che la fame era sparita.
“Mangiate tutto?” ci chiede, e noi certo. “Ah no, excuse me, no frog please!“. Non so quale parte del mio cervello ancora appannato dal terrore sia riuscito a formulare quel pensiero, visto il momento, piuttosto superfluo.
Sylvio – così si chiama il franco-canadese che gestisce questo posto – ci mostra il bungalow dove dormiremo e per raggiungrlo ci inoltriamo tra palme di cocco e banani. Non c’è la benchè minima illuminazione a parte il suo cellulare che dondola di qua e di là e illumina malamente la stradina in sabbia. Il nostro bungalow è fatto in canne di bambù, ha il tetto di paglia ed una porta senza vetri. Insomma è una capanna.
Ma questo non ci importa perchè potevamo anche non arrivarci fin qui, quindi va bene così.
In pratica questo posto è come un campeggio nel mezzo della foresta. Capiamo perchè nel prezzo della camera sono inclusi colazione, pranzo e cena, probabilmente perchè se uno volesse muoversi da qui dovrebbe avere un elicottero, o quanto meno un’automobile.
C’è una lunga tavolata sotto una veranda dove ci sono tantissimi ragazzi. Chi gioca a carte, chi chiacchiera, chi guarda la tv. Questo posto ha l’impressione di essere una comune hippie, con tre lupacchiotti che scorazzano in giro e una comunità di geki che abita i muri del porticato.
Ma va bene così, va bene così.
Mentre aspettiamo la cena una ragazza valenciana ci viene a salutare e così chiacchieriamo un po’ in spagnolo. E’ bello parlare fluentemente con qualcuno dopo una settimana di inglese strascicato.
Dopo cena ci beviamo una birra e poi andiamo a letto esausti. Letto. Concetto particolare al Jungle Beach.
C’è un materasso matrimoniale a cui è stata messa una federa e due cuscini minuscoli. Ai piedi del letto, degli asciugamani e dei teli, che non riusciamo a capire se sono coperte o teli da mare.
Noi decidiamo – anche per forza – di usarli come coperte e ci addormentiamo anche qui col rumore del mare, che sembra così vicino, sopratutto per la mancanza di una vera porte e di una vera finestra.
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infatti eravamo un po’ preoccupati perche’ c’era stato riferito che su facebook la sara aveva scritto che” era stato uno dei momenti più brutti della sua vita”, ora ne comprendiamo il motivo.
in attesa di leggere il proseguimento del vostro viaggio
vi salutiamo
sara non ti devi preoccupare marco è addestrato per
cavarsela anche nella jungla se controlli dentro
il suo zaino c’è sicuramente il kit di sopravvivenza
Spero non vi siate preoccupati. Pensavo che la voce non vi sarebbe arrivata, altrimenti non l’avrei scritto.
Marco è addestrato ed è bravissimo in tutto, anche se quando abbiamo saputo che per il “campeggio” girano serpenti anche lui ha storto un po’ il naso.
Comunque i bagni comuni non sono niente male Mauri!
Ciao Sara, ti prego non viaggiate di notte!
Ciao So, non preoccuparti, ora saremo più prudenti, anche se in fondo anche l’altra sera non era successo nulla di grave, solo un po’ di spavento per aver sbagliato strada.