Il mio Vietnam: surf, o quasi, sulle onde del Pacifico

La giornata di oggi è stata piuttosto tranquilla, a differenza della notte che invece è stata molto fredda, nonostante ci fossimo imbottiti come per la scalata dell’Himalaya.

Jungle Beach - Doc Let

Surf a Jungle BeachL’ultimo giorno al Jungle Beach – come è giusto che sia – è stata dedicata al relax e alla spiaggia, alla magica, splendida, meravigliosa spiaggia di questo posto.
In giro ci sono un paio di tavole da surf tutte scassate. Ne prendo una per provare a surfare, visto che il mare – soprattutto dopo una certa ora – è sempre molto mosso. I risultati sono però scadenti, un po’ perchè non c’è paraffina per la tavola e un po’ per mia incapacità.
Dunque il titolo di questo articolo era solo per sentirmi un po’ californiana e per spingervi a leggere anche oggi. Se fossi stata coerente con il contenuto di questo post avrei dovuto intitolarlo qualcosa come “Rustìda sotto il sole del Pacifico” visto che invece che più che una surfista della Weast Coast sembro un’Irlandese alle prime armi con il sole dei tropici, che non ha mai conosciuto una crema protettiva.

Al tramonto inizio ad esultare per non aver visto nessun serpente: finchè il sole è alto e la terra è calda, è sempre troppo presto per parlare.
Ceniamo tutti insieme – alle 18:30 come sempre, non appena tramonta il sole -, saldiamo il conto e ci prepariamo a partire. Alle 19 arriverà a prenderci un driver per portarci alla stazione dell’autobus.

Questa notte prenderemo un altro sleepping bus per spostarci ad Hoi An, una cittadina che dista circa cinquecento chilometri da qui.
Solo ripercorrere la strada fatta l’altra sera con quel tassista sconsiderato che ci ha portato in un cantiere sulla montagna, mi fa risalire l’agitazione. Un senso di inquietudine mi invade tutta, mentre il driver corre sulla strada lunga e dritta e piena di buche con il finestrino tutto abbassato.
Arriviamo ad un distributore di benzina dopo venti chilometri, e ci viene detto che è qui che dovremo prendere l’autobus. Sylvio, prima di salutarci, ci ha detto di non pagare l’autista fino a che non sia arrivato il bus, e di chiamarlo per qualsiasi cosa in caso di necessità.
Il tassista scende e si allontana, se ne va a chiacchierare con dei ragazzi in motorino, e noi ci scambiamo le nostre opinioni sul posto in cui siamo appena stati: mlto soddisfatti ma bisognosi entrambi di un letto, delle coperte ed una doccia con l’acqua calda.

A un certo punto arriva un altro ragazzo, della stessa età del nostro autista ma con la faccia più sveglia e meno bonacciona. Ovviamente neanche questa volta nessuno parla mezza parola d’inglese e questo qui appena arrivato continua a farci segno di scendere.
Come scendere? L’autobus non è ancora arrivato!
Arriva arriva, ci assicurano. Tolgono i nostri zaini dal bagagliaio, noi scendiamo per capire cosa stia succedendo e l’amico parte con la macchina, lasciando il nostro autista con un motorino.
Bene. Ci risiamo.

Battito acellerato e voce isterica. Ma questa volta un po’ meno, visto che ne abbiamo passate di peggio.
Immaginiamo che lavorino insieme con una sola macchina e ci sta. Mettiamoci il cuore in pace, diciamo, ed andiamo a sederci su una lurida panchina davanti a un lurido tavolo, della lurida pompa di benzina.
Siamo fuori dalla finestra di una stanza e sui muri, all’interno, una famiglia di geki che, immobile, si gode il fresco delle pale di un ventilatore arrugginito.

Chiediamo al nostro amico – che è evidente non avere la benchè minima cattiva intenzione – e lui ci dice tranquillo che il bus arriverà alle 21.
Sono le 19:30.

Mi risale l’agitazione – e la scocciatura -, proviamo a chiamare Sylvio. Non siamo preoccupati – non come l’altra sera almeno – ma vogliamo chiedergli se è normale questa cosa, del bus che arriva tra un’ora e mezza e dello scambio di mezzi di locomozione.
Sta di fatto che ci troviamo presso un distributore di benzina con le valigie, in compagnia di un individuo che non parla mezza parola d’inglese e, udite udite, una voce al telefono – prima in vietnamita e poi in inglese – ci dice che il numero è inesistente.
Tralascio tutte le imprecazioni – contro noi stessi – che probabilmente dovevamo abilitare il telefono alle chiamate e non lo abbiamo fatto, e che ci troviamo, di nuovo, in una situazione davvero sconveniente.

Dopo una mezz’ora di rassicurazioni e tentativi di tranqullizzarmi, l’autobus finalmente arriva e anche se fosse una discarica ambulante la preferirei a questa stupida pompa di benzina.
Di corsa carichiamo i bagagli e Marco si appresta a pagare il ragazzo, che in fondo è stato gentilissimo con noi e fatto niente di diverso da quello che era il suo dovere.
Trecentomila dong è il prezzo della corsa, pattuito prima da Sylvio. Nella fretta Marco si sbaglia e gli dà una carta da duecentomila più una da diecimila. Il giovane vietnamita non si arrabbia ma è molto triste, prova a dire qualcosa, rassegnato. Pensa che lo vogliamo fregare.
Quando ce ne rendiamo conto siamo dispiaciuti e cerchiamo di scusarci in tutti i modi, così prendiamo una banconota da cinquecentomila e decidiamo di lasciargli il resto, come mancia per aver aspettato lì con noi e più che altro per fargli capire che non volevamo fregarlo.
Sono 7 euro di mancia e lui ci dice che no, no, sono troppi, e non ha il resto da darci. E quando capisce che non lo vogliamo, il resto, un’espressione di incredulità e di gioia gli riempiono il volto. It’s ok, thank you very much e lo lasciamo lì, che ci fa ok con il pollice alzato e non conosce le parole giuste per ringraziarci.

Così prendiamo i nostri posti su questo sleepping bus a cinque stelle e partiamo alla volta di Hoi An.




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