Roma: il viaggio
5:15 del mattino, suona la sveglia.
Fuori è notte fonda e le strade sono imbiancate di neve.
Calzettoni spessi un dito, calzamaglia di lana, pantaloni.
Maglia termica, maglia cotone lunga, maglia lana corta, maglione di lana spesso due dita.
Piumino, sciarpa e cappello, di lana.
A Roma si và per sopravvivere.
Ci aspettano due giorni con la peggior ondata di maltempo degli ultimi ventisette anni.
Marco la visiterà per la prima volta, e io non mi stancherò mai di vederla, dunque approfittiamo della partita di rugby Italia-Inghilterra per farci il tanto desiderato giro della capitale che rimandiamo da anni.
Arriviamo in stazione prima delle 6:00, giusto in tempo per sentire l’annuncio di un ritardo di circa venti minuti.
Siamo molto stanchi, io un po’ tesa e preoccupata per il viaggio, e come accade sempre quando sono stanca e nervosa inizio a cantare.
Inizio a cantare NON qualche canzone famosa, ma invento canzoni idiote sulla situazione – tipo Chissà chissà, se arriveremo mai. Se ci salveremo dai guai, se moriremo al freddo e al gelo oppure a Roma arriveremo, robe così -.
E poi la tensione mi fa uscire quelle risate isteriche che fanno i matti, senza motivo e irrefrenabili.
La pazienza di Marco è messa a dura prova, considerando che anche in un giorno normale, ad un orario normale, non ama che gli si parli addosso appena alzato.
Ad un certo punto il mio compagno di vita commette il gravissimo errore di fare uno sbadiglio.
Sbadiglia senza mettere la mano davanti alla bocca, una cosa che odio, e così inizio a bacchettarlo dandogli del maleducato, che a ventinove anni dovrebbe conoscere la buona educazione, che gliel’ho già detto altre volte e che bla bla bla, che così non si fa bla bla.
All’inizio tenta di giustificarsi, poi silenzio.
Io rincaro la dose, così non si fa, non è educazione, per rispetto degli altri, uno come lui, così a modo, sua mamma non sarebbe affatto contenta e così, mi si avvicina e mi dà una testata.
Sul naso. Prendendo la mia testa tra le mani e spaccandomi il setto nasale con la fronte.
Sento l’osso che si rompe e il sangue che inizia a scendere caldo.
In realtà questo è successo solo nella sua mente.
Sono certa che ha pensato di farlo e che lo ha desiderato ardentemente.
Ma grazie al cielo il freddo gli ha costretto le mani nelle tasche e dopo un cinque minuti che portavo avanti il mio monologo moralizzatore il treno ha deciso di arrivare.
Meglio così.
Per entrambi.
Il viaggio comincia, dondolati dal treno, al caldo, a guardare fuori un paesaggio ingrigito dal freddo.
A Falconara aspettiamo un’oretta. Ci infiliamo in un bar dall’altra parte della strada – perché un bar dall’altra parte della strada, è sicuro meglio di quello della stazione -.
In realtà il bar è bellissimo ma il barista è uno zozzone incapace pure di salutare.
Che non appoggia le cose ma è capace solo di tirarle, compreso il latte per il cappuccino, che gli cola sul polso mentre cerca di andare veloce per liberarsi dai clienti che ha di fronte.
La stazione di Falconara Marittima è desolata.
Il mare al di là della ferrovia è indomabile e irrequieto. Sembra che il freddo arrivi dal suo infrangersi contro gli scogli, e che ti tagli la faccia. Che tagli ogni singola parte del tuo corpo rimasta inavvertitamente scoperta.
Se togli i guanti per scattare una foto, ecco le mani tagliate dal gelo.
Il regionale veloce per Roma è l’unico treno a non essere stato soppresso.
Ripartiamo lungo quella meravigliosa strada che taglia gli Appennini e che taglia l’Italia.
Il paesaggio questa volta è diverso, dall’ultima volta: montagne, colline, borghi e lungofiumi ricoperti di neve.
Gli alberi abbarbicati sui crinali stanno lì, con un tappeto bianco appeso addosso, nel ritratto immobile di un paesaggio lunare e silenzioso, mosso solo dalla neve alzata dal treno.
Mi è impossibile dormire. Penso sempre alla stessa storia della bellezza di un viaggio, che sta nel percorso e non nell’arrivo.
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Per un attimo mi hai fatto quasi paura, già immaginavo il resto del racconto al pronto soccorso 🙂
Confermo di averlo pensato e ricordo bene di aver provato il gesto della testata con la tua testa fra le mie mani arrivando molto vicino al tuo naso. Sarebbe bastato qualche cm ma sono un signore e odio spargimenti di sangue prima delle 6 a.m.
Ho letto il tuo post e per un attimo mi sono fermato alla parola sangue, ho pensato “da Marco non me lo sarei mai aspettato ma ha fatto bene”. Conosco quel monologo mongolo che riesci ad innescare, quasi come mia moglie, quando un disco rotto ripete le stesse cose in maniera compulisva ed ossessiva finchè non lo blocchi con un colpo deciso della mano.
Ma in fondo sei mia sorella e mi dicevo dentro al cuore: “Ma no, devo essere dalla tua parte, non posso pensare queste cose”, così ho continuato a leggere. Grazie a dio l’ha solo pensato.
Grazie Marco, non mi hai cosctretto a picchiarti….