Viaggio in Kenya: Safari allo Tsavo Est
Manyatta Camp ci accoglie nel pomeriggio, stanchi e impolverati, dopo una notte passata in volo e più di 200 chilometri di pulmino su strada sconnessa.
Otto ore Milano – Mombasa, sette ore Mombasa – Manyatta, con in mezzo un ingorgo alla periferia della città, il pranzo e un bel game drive per prendere confidenza con lo Tsavo e la sua terra, rossa come la immagino sia al centro del mondo.
Mombasa non la trovo cambiata rispetto a quattro anni fa. Mi sembra quasi di riconoscere le bancarelle in lamiera ondulata e gli alloggi per camionisti.
La strada è sempre dissestata, ma forse oggi c’è più traffico di allora, forse qualche grande azienda in più.
La vita freme come sempre accade nelle grandi città, con l’eccezione che la componente africana rende tutto più colorato e incomprensibile. Motociclette dalle cromature splendenti chiudono i buchi lasciati dalle automobili, zigzagando con i clienti sul sellino posteriore.
Vecchi van arrugginiti trasportano gente da un posto all’altro della città, grandi camion noleggiati per l’occasione e riforniti al porto commerciale bloccano il traffico e tutti i mezzi più agili li schivano a destra e a sinistra, su una carreggiata senza linea divisoria, non a due ma a tre, quattro corsie…tante quante sono necessarie per muoversi e arrivare là dove si vuole.
Il traffico – ci dice la nostra guida, Kennedy – oggi è peggio del solito: siamo completamente bloccati a causa di un camion fermo che crea chilometri e chilometri di coda su quella che è l’unica strada che collega la città al nord del Kenya.
Sotto i nostri occhi scorre la giornata di Mombasa: strette di mano siglano contratti sotto gli occhi indifferenti di giovani donne che portano l’acqua a casa, sulla testa, in taniche di plastica da 20 litri. Uomini e anziane signore si protendono sui banchi di vestiti usati e già stracci, mentre alcune capre pascolano cumuli d’immondizia variopinti a lato della strada.
L’ingresso al parco, ai 13.000 chilometri quadrati di Tsavo, arriva finalmente verso l’ora di pranzo, dopo un pasto frugale e i primi tentativi di convincere due locali che il cappello da ranger con giraffa o elefante o rinoceronte no, non ci interessano grazie.
Dopo pochi minuti lanciati dentro il parco con il tetto aperto, il naso è già chiuso di polvere, e nonostante il furgoncino ci protegga dal sole la calura arriva prepotente a dirti che tu, qui, non sei a casa.
Provo imbarazzo per la mia carne bianca, così diversa da quella delle persone qua. Non è questione di immagine, di un’abbronzatura che tutti ambiscono a riportare, quanto più per la medaglia rovesciata che mi vede sulla faccia del “diverso“. Una normalità opposta a quella di tutti i giorni mi costringe a cambiare punto di vista e rifletto su come questo ribaltarsi dell’orizzonte mi aiuti a sospendere il giudizio per lasciare spazio all’osservazione.
Non è questo che fanno gli esploratori o gli uomini di scienza? Osservare, farsi domande?
La terra è senz’altro il primo elemento a colpire in un safari che inizia dallo Tsavo Est. La sua tinta delinea i contorni di ogni cosa: il contrasto con un cielo che qui all’equatore sembra un soffitto basso, la pelle degli elefanti o il manto delle zebre, nere e rosse.
La percepisco anche nella pelle delle persone, che sento ancora una volta così diversa dalla mia. É come se in questa pigmentazione sia racchiuso il radicamento di questa gente alle proprie origini, quasi fosse una dichiarazione di fedeltà alle tradizioni e quel paese che li ha partoriti.
Proseguiamo verso il campo incontrando animali di ogni genere: giraffe, facoceri, gazzelle giraffa, un’aquila reale che plana maestosa sopra tutti noi.
Una pozza d’acqua che si fa quadro meraviglioso di come in natura la convivenza tra specie – se non laddove più forte si fa sentire la catena alimentare – sia possibile e di straordinaria bellezza. Zebre e elefanti bevono allo stesso specchio e diverse specie d’uccelli se ne fregano della nostra presenza.
Vita e Tolleranza, i concetti che emergono come la schiena degli ippopotami da quest’acqua così provvidenziale.
Il campo tendato Manyatta è un’oasi di pace e tranquillità in mezzo alla savana. Le tende sono bellissime e piene di tutto ciò che serve anche agli occidentali più esigenti. Ci sorprende una piccola piscina – solo nostra – sulla veranda, che si affaccia sulla savana dove scorrazzano zebre, elefanti e giraffe. In lontananza un gruppo di leonesse gode della frescura all’ombra di un’acacia.
Tutto attorno a noi è natura: buganville, farfalle e uccelli colorati, suoni di calma e beatitudine.
Non ci si può che fare osservatori e ringraziare di essere ospitati qui, nella savana, in questa terra, su questo pianeta.