Trentotto anni e Fuertventura d’inverno

Quando ho avviato questo blog era per raccontare i luoghi che visitavo: i posti da vedere, le esperienze da provare…Poi il web si è riempito di storie, di foto e di esperienze senza dubbio più entusiasmanti delle mie, e così Travelgum si è trasformato in una sorta di diario che raccontasse più le mie emozioni che i vissuti in senso pratico.

Sono qui a Fuerteventura, a 38 anni, e oggi a lezione di surf c’erano quattro ragazzi che hanno voluto provare questa esperienza per mettere una X sulla check list di cosa fare prima dei trent’anni. Mi sono resa conto che non ho niente da insegnare a nessuno, niente da spiegare, nulla da anticipare, soprattutto a chi prima di me ha deciso di intraprendere le strade del mondo ed esplorarle tutte, senza gli schemi e i limiti che io avevo a quell’età.

Voglio invece mettere nero su bianco le sensazioni, quelle onde che mi attraversano e sono solo mie, perché una persona mi ha detto che se dieci ciechi toccano un elefante ognuno di loro ne farà un disegno diverso. E allora questo è il mio ritratto di quest’isola, a trentotto anni, dopo tre anni senza un viaggio decente e due senza riuscire a prendermi uno stacco e guardare solo me. Questo è il riflesso dell’isola dentro di me.

Non dirò dei vulcani e di questi scenari lunari che mi fanno stare in pace con il mondo, che sono nata e cresciuta in collina ma i deserti mi trasmettono una quiete che solo loro: riposano lo sguardo e non creano aspettative, perché non lasciano spazio a domande tipo: Cosa ci sarà là dietro?

Tipo qui e ora soltanto.

Dirò una banalità che si dice di tanti luoghi, ma il cielo qui è più azzurro che altrove, e le nuvole sono così bianche che più che elemento di disturbo sono un orpello a perfezione del tutto; danno profondità a questa distesa di sabbia bianca puntellata di aloe vera e di famiglie di turisti, che corrono tra le dune nella spensieratezza dei momenti da ricordare.

Sei qui, adesso. È tutto qui e dimmi un po’ se non ti basta (se non ti basta hai dei problemi, te lo dico io).

Ringrazio me per aver portato qui le tensioni da lasciare all’oceano, l’ansia da offrire alle onde, lo sforzo di nuotare contro corrente, arrivare, riuscire prendere un’onda e saper dire, poi, Per oggi ho dato.

Di mettere a tacere la voce che sempre ha bisogno di dimostrare, conquistare, di fare bene, di valere. Fossi venuta qui a vent’anni avrei spaccato il mondo. Che poi ho capito che il mondo resta sempre tutto intero, e al massimo ti spacchi tu; ma anche questo fa parte del gioco e tutto serve, sempre.

È bello quando le persone vicino a te cambiano, si ammansiscono, abbassano la corazza e ti mostrano il loro lato autentico, le ombre e le fragilità: è un dono prezioso che voglio custodire per ricordarmene quando amerò di nuovo qualcuno, e mi capiterà di non comprenderlo, magari per voler affermare la mia verità, o perché la sua verità sarà un po’ come sale sulle mie vecchie ferite, di cui lui neanche sa.

È storia. L’amore poi, insieme alla fatica e alla volontà, alla fine salva tutto; e ripulisce se trova spazio per entrare nel quotidiano, come le onde che trovano la via per entrare e creano canali per uscire, arrivano e se ne vanno, fluiscono, si avvicinano e si allontanano, in una danza tutta loro che devi osservare con la coda dell’occhio per non perdere equilibrio sulla tua tavola. Che il tuo centro è sempre al centro di tutto, e senza quello sei solo un naufrago in mezzo alla tempesta.

C’è questa cosa che il tramonto, qui, arriva un’ora dopo che a casa (o prima, è relativo), e la fine di una giornata sembra più lunga e tu hai più tempo per vivere quel momento di bellezza e dolore di un giorno che è stato come un dono.

Una vita condensata in un pomeriggio: il sale sulla bocca, il sole che ti brucia le guance, pioggia che qui è come i fuochi d’artificio a capodanno, il traguardo di una amica che vivi come fosse il tuo. Attraversi queste strade lunghe, piatte, ai lati sabbia a perdita d’occhio e finalmente silenzio, mentre Johnny Cash canta il suo dolore.

Quei bambini che corrono sulle dune mi sembrano un quadro di Van Gogh in una Provenza arida, e li ricorderò per sempre: le loro braccia alzate in segno di gaudio e le braccia tese della mamma, casa nel deserto; una foto che spero venga stampata e gli ricordi questo tramonto, in una periferia neanche particolarmente bella di una Corralejo d’inverno.

Chissà se il ragazzo in bici che abbiamo appena superato sta provando anche lontanamente qualcosa di simile; sentisse anche solo di sfuggita questa musica forse qualcosa si muoverebbe in lui; apro il finestrino per scrollare la mia sigaretta e spero che le note di Johnny Mitchell lo sfiorino nella sua pedalata, insieme a questi raggi di luce che mi stanno letteralmente trafiggendo il cuore.

Eccolo qui, uno di quei momenti, non mi manca nulla; dura solo un secondo eppure, per un secondo, io sto.

La felicità è passeggera, la serenità forse un po’ più duratura, ma nessuna emozione è permanente. Mi hanno insegnato che si chiamano emozioni perché si muovono e ti muovono, verso cosa non lo sai, o meglio puoi imparare a capirlo ma non è mai la stessa meta, lo stesso obiettivo.

Tengo con me il dono del silenzio, di quella luce, di quell’attimo, e me lo porto nel caos di un aperitivo al bar, nell’abbondanza di una cena tra amici, in un nuovo momento presente. Osservo e ascolto le sensazioni che mi suscitano le voci al tavolo, quelle attorno, quelle dentro: mi sembra di comprendere anche quelle non mie e di avere dentro un interprete di ognuna. E poi mi chiedo E io cosa direi? Cosa sentirei? La curiosità è linfa che mi scorre nelle vene insieme al sangue, al vino e alla gratitudine.

Io, Sara, cosa farei? Cosa farò quando toccherà a me? Non so dirlo, posso immaginarlo, immaginarmi, e poi so che quando sarà il mio turno, a modo mio e coi miei errori, reciterò la mia parte in questo ruolo, sbagliando come ho sempre fatto e amando come ho sempre fatto. Provando a migliorare sempre, che a volte può significare essere una merda e pensare solo a me. Se non altro prima che gli altri.

Non scriverò nessun consiglio su dove mangiare a Fuerteventura, che ieri siamo andate all’indiano e Dio solo sa come sia potuto succedere che non abbiamo passato la giornata di oggi al cesso. Non mi ricordo nessun nome dei posti dove mi sono seduta a mangiare o bere cose. L’unica cosa che mi sento di dire è che su quest’isola non hanno verdure e quindi state attenti e preparatevi: portatevi le zucchine da casa.

Ricorderò invece l’odore delle emozioni, i sorrisi che trasformano il viso e quelli che invece non si vedono, quella sensazione di dolore per una bellezza che spacca il cuore, il senso di impotenza e di lasciare a ciascuno le sue battaglie, le risate sguaiate, i racconti di una casa lontana, il coraggio di chi scopre il fianco e si mostra per Chi è.

Non mi manca nulla. Io sto.




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