La mia prima Africa

La prima volta in Africa è un confronto tra tutto quello che ti raccontano e quello che ci trovi.
Un valutare o meno se le aspettative che hai e che hanno alimentato sono state soddisfatte o meno.
Ma mettiamo da parte la caccia ai leoni e godiamoci questa terra.

All’arrivo, come quasi sempre accade, senti solo la stanchezza del viaggio e l’umidità che ti appiccica i vestiti, quelli pesanti che ti porti dell’inverno, in Italia.
No, non l’ho sentito “l’odore” dell’Africa.

Siamo partiti in fretta e furia con i pulmini per il safari al Parco Nazionale dello Tsavo Ovest.
Uscendo dall’aeroporto incontri baracche lunghe come scuole materne, solo molto meno stabili e più colorate, con porte di lamiera buttate lì e cucite l’una con l’altra, come fossero grosse toppe arrugginite.
Lungo la strada che dall’aeroporto di Mombasa porta verso il parco, le buche sono alte come crepacci e ti chiedi come certi tir riescano a viaggiare senza cadere di lato.

Si attraversano villaggi con negozi sulle strade, banchi di pomodori o cibi confezionati appesi in file di carte colorate.
Alcuni bambini salutano, alcuni adulti invece si incazzano se gli scatti una fotografia.

Spingendosi verso fuori si incontrano lungo la strada alcuni masai, mucche con e senza gobba, le prime per la carne e le seconde per il latte; un tir ribaltato in mezzo alla strada, con quintali di sacchi di farina a terra, tanto per smentire il mio dubbio iniziale.
Angoli di sporcizia con corvi neri come kenyoti che cercano qualcosa di commestibile da beccare.
Con un odore forse, non so se quello d’Africa.
Non credo.

Questo è il primo impatto che ho avuto con l’Africa e con il Kenya, sarei bugiarda se vi raccontassi il contrario. Non scrivo qui per scrivere bugie.

Una volta dentro il parco i colori cambiano, e se sposti l’attenzione dalla foto ricordo con l’insegna all’ingresso, verso l’orizzonte che si sgranchisce le gambe e si all’unga all’infinito…allora forse inizi ad entrare un po’ nel gioco e a gustare l’esperienza.
Es-per-ienza: passare attraverso.

Lo Tsavo Ovest ha tanti cespugli, e la terra rossa rimane nascosta da una vegetazione straordinaria, straordinaria per la pioggia ricevuta nei giorni prima del nostro arrivo.
Poi si erge alta nei termitai, come castelli di sabbia dalle mille finestre, vicino agli alberi, come fossero santuari aggrappati alle montagne. Enormi, tantissimi.

Il primo animale che avvistiamo non potrebbe essere più magico. Non un leone, non una giraffa, ma una piccola rondine dalla coda lunga che nuota come se fosse in un incantato mondo sottomarino.
Ondeggia la coda come un pesce, veloce, azzurro, elegante. Si posa su un albero e sparisce mentre il pulmino prosegue la sua corsa in cerca di felini.
Tra i cespugli vedo piccoli cuccioli di gazzella, anzi antilope dik dik, così iniziamo ad imparare i nomi di tutti questi animali che faranno di ogni avvistamento una piccola festa.

Le zebre sono proprio come le abbiamo sempre viste nei film, o nei cartoni animati. Solo un po’ sporche di terra rossa, quasi a non voler deludere nessuno. A non voler essere troppo…”vere”.
Il cielo è nuvoloso e le nuvole sono le stesse di sempre: belle, soffici, bianche di sole e plumbee di pioggia, poco più in là.
E’ l’orizzonte invece che cambia, la terra che respiri sa di ferro, il sole che ti brucia è un altro sole.

La prima giornata si conclude quasi a volermi sbeffeggiare, per aver messo in discussione la nomea di questa terra. Dopo un safari stancante, con poche ore di sonno alle spalle per il volo notturno, tutto il pulmino tace.
Pano piano le chiacchiere sfumano in silenzio, ed il silenzio in sonno.
La strada scorre veloce nonostante le buche, che diventano un ritmo regolare, che si annulla con la sua stessa frequenza.
In questo preciso istante, in cui tutti sono zitti, l’Africa mi parla.
In cielo, nuvole lunghe e nere come ombre confondono l’orizzonte creando spettacolari giochi di luce.
L’imbrunire sta diventando notte e io non so, se a lato della strada, ci sia un lago, il mare, o solo cielo. L’aria è una forma plastica, le nuvole sono sagome e la mia immaginazione si confonde ubriaca di stanchezza.
Chiudo gli occhi, estasiata.

Arriviamo al campo. Man Eaters.
Appena scesi dai pulmini con zaini sulle spalle ci accoglie un rumore forte, continuo, indiscreto.
Un rumore d’acqua, di acqua forte e inarrestabile.
Di fianco alla piscina del campo tendato, al di là della staccionata, un fiume gonfio di acqua e fango, che scorre forte come fosse il tempo.
Il suo fragore mi tocca dentro, dove neppure l’imbrunire era ancora arrivato, e così mi emoziono.
Mi emoziono di questo scorrere inarrestabile, di questo elemento per me così superfluo ma qui così essenziale e vitale.
L’acqua.
Il canto del fiume, al Man Eaters, non ti arriva dalle orecchie, ma è come se la sua forza vibrasse dritta fino al profondo di qualche luogo nascoso, dentro di te.
Purtroppo, o per fortuna, prima che questa vibrazione salga alla gola, l’emozione viene interrotta da grida sguaiate e flash di macchine fotografiche.

Non importa, sono certa che avremo il nostro momento, io e il fiume. Per capire cosa ci lega in questo modo.




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